Pregare con il gregoriano

Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II[1] la nostra comunità ha mantenuto nel canto liturgico alcune parti in gregoriano, pur introducendo anche parti in italiano e in musica moderna a una o più voci. In particolare Paolo VI chiedeva specialmente ai monaci non solo “di conservare nell’Ufficio corale la lingua latina, ma anche di custodire indenni la qualità, la bellezza e l’originario vigore di tali preghiere e di tali canti”[2].

Col passare degli anni tuttavia, il canto gregoriano e in parte anche il latino sono diventati sempre più sconosciuti. Ci siamo perciò domandate “è ancora interessante per noi, cristiani del XXI secolo, cantare il gregoriano anche se non si capisce più il latino?”. A partire da questo Avvento è nato il desiderio di condividere le riflessioni emerse dal nostro lavoro di lectio sulla Scrittura e i Padri della Chiesa che ci ha aiutato a comprendere meglio il tesoro contenuto nel repertorio gregoriano. Padre Cardin, monaco benedettino e grande studioso di gregoriano, scriveva: “Il valore essenziale del canto gregoriano sta nella sua profonda spiritualità”. In effetti questo antico canto nato per la liturgia e fiorito nei monasteri ha molto a che fare con la lectio biblica e patristica, la meditazione e la preghiera.

In questa pagina troverete ogni domenica un commento all’introito, il canto che accompagna l’ingresso del celebrante nella S. Messa.

 

 

[1] Così afferma la Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell’azione liturgica”. (S.C. n°116)

[2] Lettera apostolica “Sacrificium Laudis” (1966)