Testo:
Laetare, Jerusalem, et conventum facite omnes qui diligitis eam: gaudete cum laetitia, qui in tristizia fuistis: ut exultetis et satiemini ad uberibus consolationis vestrae.
Traduzione:
Rallegrati, Gerusalemme, e radunatevi in assemblea, voi tutti che l’amate. Gioite con letizia, voi che foste nella tristezza, affinché esultiate e siate saziati dai seni della vostra consolazione.
(Is 66, 10.11)
Contesto biblico:
Il testo dell’introito è preso dal capitolo 66 del Libro di Isaia. I rimpatriati dall’esilio in Babilonia trovarono il loro Paese devastato in ogni senso (materiale e spirituale) – “speravamo la luce ed ecco le tenebre” (Is 59,9) – e in una grande liturgia penitenziale il profeta con il popolo confessa: “sono molti davanti a te i nostri delitti, i nostri peccati testimoniano contro di noi” (Is 59,12). Il profeta, tuttavia subito dopo annuncia: “Come redentore verrà per Sion, per quelli di Giacobbe convertiti dall’apostasia” (Is 59,20). A questo annuncio segue una promessa di vita, in cui si inserisce il testo del nostro introito: “«Io che apro il grembo materno, non farò partorire?», dice il Signore. «Io che faccio generare, chiuderei il seno?», dice il tuo Dio. Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria”. (Is 66,9-11). Anche tutte le altre nazioni sono chiamate ad unirsi alla gioia di Gerusalemme, a radunarsi e a trovare in essa abbondanza di vita e di consolazione: “Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati” (Is 66,12-13).
Commento tra testo e musica:
Nella IV domenica di Quaresima la liturgia ci fa fare una sosta; rompe per un giorno l’austerità del cammino penitenziale, per ridarci slancio richiamando la nostra attenzione alla meta, alla gioia della Pasqua.
Il primo imperativo dell’introito di oggi – Laetare – è leggero e si slancia verso il vocativo Jerusalem che si espande, simile ad uno squillo di tromba o alla voce di un araldo che richiama l’attenzione. L’arco melodico tuttavia non si interrompe qui, ma continua il crescendo fino alla gioia esultante del secondo imperativo – conventum facite (radunatevi insieme) – dove la voce raggiunge il punto più acuto con un modulo (do-mi-re-do-si) ripetuto due volte di seguito e che risuonerà ancora su exultetis, espressione della gioia prorompente dell’assemblea dei salvati.
Nella seconda frase – gaudete cum laetitia, qui in tristitia fuistis – la melodia assume un colore più mesto, quasi a rievocare per un momento il dolore dell’esilio, senza tuttavia soffermarcisi troppo. Subito dopo, infatti, ecco ricomparire su exultetis il modulo esultante di conventum facite.
L’ultima frase prosegue mettendo in risalto la pienezza della sazietà, quella “misura pigiata, scossa e traboccante” che dal cielo scende fino a noi. Infine la gioia diviene più intima e dolce: la melodia riprende su uberibus e consolationis, con piccole variazioni, la stessa struttura di Jerusalem[1]. Così, ripetendo due volte di seguito la salita fa-sol-la-do-do prima di ridiscendere dolcemente verso il riposo della cadenza finale, sembra suggerire l’immagine di un bimbo cullato in braccio alla madre.
L’autore di questo introito aveva probabilmente presente quanto scrissero i Padri della Chiesa commentando questo testo di Isaia. Infatti S. Cirillo di Alessandria, ad esempio, collega questo passo a “Beati quelli che sono nel dolore perché saranno consolati” (Mt 5, 4), spiegando che il dolore è quello della conversione, un dolore quindi benefico che porta alla pienezza dei beni divini, e dice: “E’ questo che il Signore promette loro dicendo: affinché succhiate e vi saziate al seno della sua consolazione. Paragona la consolazione che si ha in Gerusalemme, che viene dalla grazia dello Spirito Santo, alle mammelle e al latte”[2].
Il nostro introito esprime l’ingresso gioioso nel nuovo tempio della comunità di Israele aperto ai proseliti, adattandolo alla comunità cristiana riunita dal suo misericordioso Dio nell’attesa della gioia pasquale – anticipazione di quella della Gerusalemme celeste – in cui i battezzati saranno “portati in braccio”, “nutriti del suo latte”. Come canteremo nell’introito della domenica dell’Ottava di Pasqua, Quasi modo geniti infantes, con le parole della prima lettera di S. Pietro.
Insomma – come cantiamo nell’inno Liberati dal giogo del male – “dalla morte passando alla vita giungeremo alla terra promessa” che è la Pasqua, la vita nuova in Cristo nella Chiesa, Suo corpo, e la vita eterna nella Gerusalemme celeste.
Nota storico-liturgica:
La stazione romana di questa IV domenica di Quaresima era nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma e infatti i canti sono tutti pieni di riferimenti alla Città Santa. La basilica di Santa Croce era considerata la Gerusalemme romana perché qui era conservata una grande reliquia della Croce, donata da S. Elena, e la basilica stessa cercava di riprodurre gli spazi della Basilica eretta sul Golgota.
A partire dal X secolo venne inserita nella liturgia papale anche l’usanza di benedire e portare in offerta una rosa d’oro alle reliquie della croce. La rosa d’oro si portava nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, poiché tale basilica costituiva l’immagine e il modello della Gerusalemme celeste.
Il cardinale I. Schuster[3] afferma che proprio da questa usanza derivano il colore rosa dei paramenti e il fatto che si adorna di fiori l’altare, a differenza del resto della quaresima in cui non dovrebbero esserci decorazioni floreali in chiesa.
Ci sono soltanto due domeniche durante l’anno liturgico che si vestono di rosa ed entrambe contengono un richiamo alla gioia (la III domenica di Avvento, detta Gaudete, e questa IV domenica di Quaresima, detta Laetare), ma i rispettivi introiti, da cui le domeniche prendono il nome, esprimono due diversi tipi di gioia con due modi gregoriani ben diversi. L’introito Gaudete è in VIII modo ed esprime una gioia più raccolta, intima. Laetare invece – con il suo V modo, detto dai medievali laetus – esprime un’esultanza che rende bene il senso etimologico di letizia. Laetitia, laetare, laetus, derivano dalla radice laet- che è la stessa di laetamen (ebbene sì, “letame”!). Questa strana associazione non ci deve scandalizzare, anzi ci fa capire meglio perché proprio in questa domenica la Chiesa faccia risuonare l’imperativo “Laetare!”. Il letame rende fertile la terra, allieta i campi, li rende capaci di dare frutti. La persona lieta è capace di generare frutti e ne sa donare. Ciò che, tra le altre cose, ci suggerisce allora questo introito è che se accogliamo la verità di noi (anche se non è gloriosa), se perseveriamo nel cammino della conversione, questo “ci fertilizza” ci rende capaci di vita nuova. Ha già in sé, come in germe, la gioia della Pasqua.
[1] Questo richiamo vuol significare la maternità della Chiesa, oltre che indicarci il luogo da cui ci vengono il nutrimento e la consolazione. Gerusalemme infatti è la Chiesa, coloro che l’amano sono i fedeli che si riuniscono a celebrare l’Eucaristia, i pagani che ricevono la fede sono coloro che esultano per il dono della fede (e che prima erano nella tristezza perché non avevano speranza di Dio); sono anche i pubblici penitenti per i quali si avvicina la riconciliazione e riammissione nella Chiesa (il Giovedì Santo). Tutti ci sazieremo dell’abbondanza delle loro consolazioni perché avremo acquistato o riacquistato dei fratelli e per i beni spirituali da loro portati che arricchiscono tutta la Chiesa nella comunione del Corpo di Cristo
[2] Cirillo di Alessandria, Commento al profeta Isaia, 5,6
[3] I. Schuster, Liber sacramentorum, vol. I – Il Regno messianico, ed. Marietti, 1963