Testo:
Judica me, Deus, et discerne causam meam de gente non sancta: ab homine iniquo et doloso eripe me: quia Tu es Deus meus et fortitudo mea.
Traduzione:
Giudicami, o Dio, e separa la mia causa dalla gente non santa[1]; salvami dall’uomo ingiusto e ingannatore, poiché tu sei il Dio mio e la mia fortezza.
[Versetto: Manda la tua luce e la tua verità: proprio queste mi guideranno e mi condurranno sul tuo monte santo e nella tua tenda.] (sl 42,1-2a)
Commento tra testo e musica:
La quinta domenica di quaresima era detta anche Domenica di Passione: ci stiamo avvicinando ormai alla Settimana Santa. Gesù, ben conscio di andare incontro alla morte, si avvia deciso verso Gerusalemme. Questo brano ci introduce in questo clima invocando Dio successivamente come giudice, come avvocato difensore e come liberatore. Tracciano questa progressione i tre verbi imperativi: judica – discerne causam – eripe.
Nell’incipit la melodia rimane in sospeso, quasi timorosa per poi slanciarsi sulla dominante (do) su Deus e rimanerci per tutta la prima parte della frase: Dio è lì, sulla corda forte, e lì noi poniamo la nostra causa, in Dio, chiedendogli di mettersi dalla nostra parte, di “separare” – discernere[2] – la nostra causa dai malvagi (e la melodia sembra quasi imitare con le note ribattute i piccoli colpi di una mano che passa al setaccio. Al contrario la “gente non santa” scivola giù, nelle note gravi – lontano da Dio – e lì si aggira.
Dove si parla dell’uomo iniquo (ab homine) ritorna il modulo melodico dell’incipit con una piccola variazione: ritorna il timore stavolta, però, di fronte al nemico. La melodia poi su iniquo et doloso, attributi del nemico, si fa instabile e gioca con i semitoni descrivendo così la scivolosità, l’ambiguità dell’ingannatore. Su eripe di nuovo ci rivolgiamo a Dio e di nuovo la melodia torna sulla corda di recita con un grido che resta in sospeso chiudendo la seconda frase sul Si.
Al contrario, quando nella terza frase l’orante rivolge tutta la sua attenzione a Dio, il canto, pur restando sempre pieno di tensione, da drammatico si fa più sicuro e poggia con forza sulle parole quia, meus e fortitudo: è la nostra professione di fede in Dio, nostra fortezza. Quel “Deus meus” richiama anche l’invocazione di Gesù sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, che qui tuttavia non risuona come un grido acuto, ma esprime piuttosto la nostra fiducia e la tenerezza di Dio che si china in basso fino a noi. Anche la parola fortitudo non è qui tanto la forza fisica di chi si staglia sopra i nemici, ma la pazienza, la resistenza nel sopportare anche le avversità di chi è ben fondato sulla roccia.
Guglielmo di Auxerre spiega: “L’introito inizia dalla preghiera del Signore nella passione Judica me Deus et discerne causam ecc… In questo modo ci istruisce nella preghiera. Il verso manda la tua luce, perché chi vede il premio, si fa forte nella battaglia; E la Tua verità: chi infatti vede i beni veri, facilmente è condotto nei tabernacoli eterni”[3].
Il richiamo alla passione di Cristo come via di salvezza, che fa Guglielmo di Auxerre commentando la liturgia di questa domenica, è presente anche in molti autori che hanno commentato le parole di questi versetti interpretandole come parole di Cristo o come parole della Chiesa e del cristiano. Così ad esempio Eusebio di Cesarea le riferisce al profeta come figura di Cristo:
“Come accade che, per la sofferenza del popolo, anche gli onesti patiscano e soffrano in un unico sentire, allo stesso modo l’onestà degli amici di Dio opera una condivisione e comunione di beni. Dunque, prendendo su di sé i patimenti del popolo, essi facevano preghiere per la moltitudine ed elevavano a Dio una comune supplica: Giudicami, o Dio […] innalzava una supplica a Dio … perché come lui si era assunto il male commesso dal suo popolo così anche il popolo partecipasse della sua onestà. […] L’amico di Dio gli parla con queste espressioni: Tu stesso sii giudice per me, giudica questa mia causa, perora questa mia causa, affinché ottenendo giustizia io, le mie opere rette contribuiscano alla salvezza dell’intera moltitudine”.[4]
Agostino invece riferisce le parole del salmo alla Chiesa, al Corpo di Cristo composto dal Capo e dalle membra. Con un riferimento che ben si lega al Vangelo del ciclo B Egli dice il buon seme che cresce in mezzo alla zizzania e questo fino alla fine del mondo sono coloro che anelano alla città celeste, fissando là la loro speranza. I giusti, quindi, gemono in mezzo ai malvagi condividendone il campo, per entrambi scaldato dal sole e irrigato dalla pioggia. “Insieme a costoro [il giusto] ha in comune gli stessi doni di Dio, ugualmente concessi ai buoni e ai malvagi. Vedendo quante cose ha in comune con i malvagi, con i quali tuttavia non ha in comune la causa, prorompe in queste parole: Giudicami Dio, e distingui la mia causa da gente non santa… Per ora in quest’esilio ancora non distingui la mia pioggia, la mia luce: ebbene distingui la mia causa. C’è distanza tra colui che crede in Te e colui che non crede in Te. Pari è la debolezza ma diversa è la coscienza; pari è la fatica ma diverso è il desiderio, il desiderio degli empi perirà; dovremmo dubitare anche del desiderio dei giusti se non fossimo certi della promessa che ci è stata fatta. Il fine del nostro desiderio è Colui stesso che ci ha fatto tale promessa. Darà Se stesso, perché Se stesso ha dato”.[5]
[1] Abbiamo tradotto l’espressione “gente non sancta” maniera letterale – gente non santa – per rendere chiaro il senso: “santo” infatti non significa “buono”, ma secondo l’etimologia più comune si ricollega a sanctus, participio passato del verbo latino sancire, nelle accezioni di separare, riservare, dedicare… (a Dio). Si noti che ritroviamo la stessa radice (sanc- o sac-) in sacer = sacro, riservato a Dio. Pertanto, santo è chi o ciò che “sta a parte” in una condizione di inviolabilità, in forza della sanzione che lo rende, appunto, sacro, separato dal mondo.
[2] “Discernere causam” nel linguaggio forense significava difendere, era ciò che faceva l’avvocato difensore. Per questo la traduzione della CEI traduce “difendi la mia causa”, anche qui abbiamo preferito una traduzione letterale, che, peraltro, è in linea con quanto dice S. Agostino nel brano citato. In questo senso si può anche capire la richiesta “discerne causam meam” come un fare distinzione, separare colui che si affida a Dio da chi invece resta immerso al “mondo”, facendo un passo più in là si potrebbe interpretare questa preghiera come “Tienimi stretto a Te”, un atto di fiducioso abbandono in Dio, che peraltro è ciò che risuona nella seconda lettura dell’anno B (Eb 5,7-9): “Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito”.
[3] Guglielmo di Auxerre, Summa de officiis ecclesiasticis, III, 57, 5-6.
[4] Eusebio di Cesarea, Commento ai salmi, Libro II, Salmo 42
[5] S. Agostino, Esposizione sui salmi, 42, 2.