Terza domenica di Quaresima – Oculi mei

3 domenica di quaresima - Oculi meiTesto:

Oculi mei semper ad Dominum: quia ipse evellet de laqueo pedes meos: respice in me, et miserere mei: quoniam unicus et pauper sum ego.

Traduzione:

I miei occhi sono sempre verso il Signore, poiché proprio Lui strapperà dal laccio i miei piedi. Guarda bene dentro di me[1] e abbi pietà, poiché io sono solo e povero. (Sl 24, 15.16)

Commento tra testo e musica:

Nella I domenica di quaresima l’introito “Invocabit me” ci aveva fatto ascoltare la promessa di Dio, per cui possiamo affidarci a Lui senza temere, certi che la Sua bontà provvidente è garantita e strabordante.

Poi nella II domenica era l’uomo a prendere la parola: “Tibi dixit” ha introdotto il tema della ricerca, del desiderio, del nostro bisogno di Dio, della luce del Suo volto.

Ora, nella III domenica, l’introito ci fa alzare gli occhi proprio davanti a quel Volto, poveri e peccatori come siamo, ma forti di quella promessa, ascoltata all’inizio del cammino quaresimale, e per questo certi che il Suo amore ci salva.

Nei due versetti del salmo 24, che costituiscono il testo, si nascondono tre attori: l’uomo, Dio e il nemico. Quest’ultimo non compare esplicitamente, ma si vedono le conseguenze della sua presenza, una presenza duplice, esterna e interna: un nemico esterno ha messo una trappola sul cammino dell’uomo e l’uomo si è fatto prendere al laccio, ma c’è anche un nemico dentro l’uomo stesso che lo rende misero; per questo l’uomo rivolgendosi a Dio supplica “guarda bene dentro di me e abbi pietà”. Questa presenza nemica potrebbe rendere il brano tenebroso, tragico o almeno drammatico e tormentato, invece la melodia gregoriana, pur senza essere leggera e spensierata, è pervasa di un senso di fiducia luminosa fin dalle prime note. L’uomo infatti, pur riconoscendo la distanza, può levare gli occhi a Dio e sa di potersi sempre rivolgere al Signore.

Sembra proprio che il compositore gregoriano si sia ispirato al commento che fa S. Agostino a questi versetti, infatti l’attenzione di entrambi è focalizzata sul “semper”, cioè che i miei occhi stiano sempre fissi sul Signore. Così scrive Agostino: “Non avrò timore dei pericoli terreni, finché non guardo la terra, perché colui che io guardo libererà dal laccio i miei piedi. Poiché io sono l’unico popolo, che conserva l’umiltà della tua unica Chiesa, umiltà che nessuno scisma o eresia possiede”[2].

Così la melodia inizia subito un pes quadratus[3] in un salto di quinta che porta deciso alla dominante (RE), il luogo di Dio, per fermarsi lì. L’avverbio semper è sottolineato da una serie di neumi allungati che girano ancora attorno al RE. Poi su Dominum la melodia scende gradualmente come a seguire lo sguardo di Dio che ricambia e si abbassa sull’uomo, raggiungendo il punto più grave.

Nella seconda frase la melodia di nuovo si leva velocemente di un’ottava (cosa rara in gregoriano) raggiungendo su evellet il culmine acuto. È il gesto di Dio di strappare, prendendo dal basso e tirando verso l’alto, il nostro piede intrappolato nel laccio del nemico. Non c’è nulla di tragico, o anche solo drammatico nella melodia, anzi essa sembra suggerire semmai un senso di vittoria, di gioia di luce e apertura: il verbo evellet (strappa, toglie) infatti non è un ottativo (= “speriamo che mi salvi!”), ma un indicativo, cioè è una certezza già in atto, “mi salverà”.

Gesù e la Samaritana – affresco del XIII secolo – Monte Athos
Gesù e la Samaritana – affresco del XIII secolo – Monte Athos

La seconda metà del brano, invece, esprime improvvisamente tutt’altro sentimento: Respice è come un grido che chiama con struggimento Dio a guardare giù verso l’uomo e ad avere pietà. Su me la melodia dalla dominante RE (il luogo di Dio) scende alla fondamentale SOL (il luogo dell’uomo). Se lo pensiamo nel contesto del Vangelo della Samaritana[4] quel Respice è lo sguardo di Gesù sulla storia della donna: le note scendono sempre di più a rivelare il profondo del cuore e tutto quello che lei ha fatto[5].

Poi la supplica si fa implorante e tesa quasi a commuovere Dio: la melodia imita con una serie di ripercussioni la voce tremante di pianto. Come spesso accade troviamo un richiamo melodico, la stessa sequenza di discesa che avevamo sentito su Dominum, viene ripetuta identica su unicus, come per ricordare a Dio (o forse a noi stessi) il Suo precedente intervento, il suo sguardo compassionevole su di noi.

Tutto questo introito è un gioco di sguardi in movimento. Ciò che chiediamo a Dio si riassume in una parola: RESPICE. L’abbiamo tradotta con “guarda bene dentro di me”. Ma questo verbo in latino ha un significato più intenso, che è passato in italiano nella forma supina, RESPECTUM ˃ rispetto. RE-SPICERE letteralmente sarebbe RI-GUARDARE, cioè guardare di nuovo, bene, volgersi indietro a guardare, tornare a guardare, guardare con cura, avere riguardo. Chi torna indietro per guardare bene? chi dopo aver guardato qualcosa o qualcuno lo guarda di nuovo, con cura? Chi è interessato a quel qualcosa o qualcuno; chi, vedendo, è rimasto colpito e vuole vederlo meglio. Anche in italiano, pensandoci bene, le parole “riguardo” e “rispetto” contengono questo significato: ho rispetto di qualcosa o di qualcuno se lo stimo, se ne riconosco e apprezzo il valore, se ci tengo e perciò ne ho cura.  Lo sguardo che ognuno desidera su di sé, quello con cui, nel nostro introito, chiediamo che Dio ci guardi è questo: non uno sguardo inquisitore, ma lo sguardo di chi ha stima e si cura di noi. Siamo dei poveretti, ma chiediamo a Dio che ci guardi dentro, scorgendo – come solo Lui solo sa fare – la gemma preziosa, benché infangata[6], che Lui stesso ha messo in noi.

La colletta di questa domenica ci fa pregare così: “Dio misericordioso, fonte di ogni bene, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno, la penitenza e le opere di carità fraterna; guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria e, poiché ci opprime il peso delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia”.

Nota storico liturgica:

Anticamente la terza, quarta e quinta domenica di Quaresima erano dedicate agli scrutini dei catecumeni che avrebbero ricevuto il Battesimo a Pasqua. In seguito, quando il Battesimo degli adulti divenne raro, si spostarono gli scrutini all’interno dei giorni feriali delle settimane di Quaresima e le domeniche presero i testi delle ferie dedicate ai catecumeni. Il Concilio Vaticano II ha voluto riportare queste domeniche – nel ciclo A delle letture – al loro significato battesimale. Sono stati perciò nuovamente inseriti i Vangeli della Samaritana, Cieco nato e Lazzaro. Con l’aggiunta degli altri 2 cicli di letture, i Vangeli dell’anno A (quelli battesimali) devono essere obbligatoriamente recuperati in una feria della settimana.

La stazione solenne di questa domenica era prevista fin dall’inizio a San Lorenzo in Verano, luogo della sepoltura del più famoso martire romano dopo i Santi Pietro e Paolo. La prima lettura prevista, di chiara allusione battesimale, trovava un riscontro anche nell’architettura della basilica; si leggeva infatti Ef 5,1-9: “Voi che un tempo eravate tenebra ora siete luce nel Signore”. Si dice che mentre S. Lorenzo veniva bruciato sulla graticola, si vedesse una luce più forte di quella delle fiamme proveniente dall’alto. La basilica ha cercato di creare sul ciborio questa fonte di luce che scende e illumina l’altare.

Guglielmo di Auxerre collega questo introito al martirio di S. Lorenzo e scrive: “C’è dunque una doppia confessione: quella del peccato e quella della lode, che l’uomo deve avere. L’uomo per mezzo dell’umiltà della confessione aspetta da Dio tutto ciò che desidera, cioè la liberazione, il dono della grazia e ogni cosa. Perciò l’introito è: “Oculi mei semper ad Dominum, quoniam ipse evellet de laqueo pedes meos”, ed è in settimo tono, infatti l’uomo è strappato dal laccio del diavolo per mezzo della settiforme grazia dello Spirito Santo. Dunque per mezzo della confessione i mali vengono troncati. E per questo si fa la statio a San Lorenzo, che per mezzo della confessione è stato liberato”.

 


[1] Si potrebbe tradurre anche “Abbi cura di me”.

[2] S. Agostino, Commento sui salmi.

[3] Nella notazione antica sangallese qui si trova infatti un pes quadratus. Si tratta di un gruppo di due note – la prima più grave e la seconda più acuta – su una sillaba, in cui il canto si poggia con decisione su entrambe le note dando maggiore intensità e durata.

[4] Il Vangelo previsto per il ciclo A delle letture domenicali, che era anche quello previsto anticamente.

[5] Pensiamo inoltre che si tratta di quella che un tempo era la prima domenica degli scrutini (vedi la “Nota storico-liturgica”), in cui i catecumeni erano “scrutati” nella vita e nella fede: dopo lo scrutinio si faceva anche l’esorcismo, un rito che unisce liberazione e verità.

[6] Come cantiamo nell’inno di S. Maria Maddalena: “gemmaque luce inclyta de luto luci reddita” – la gemma di straordinario splendore dal fango è stata riportata alla luce.