Testo:
Tibi dixit cor meum, quaesivi vultum tuum, vultum tuum, Domine, requiram: ne avertas faciem tuam a me. (Sl 26, 8.9)
Traduzione:
A Te ha detto il mio cuore: Ho cercato il Tuo volto, il Tuo volto, Signore, cercherò ancora; non voltare via da me la Tua faccia.
Commento tra testo e musica:
Guglielmo di Auxerre scrive a proposito di questo introito: “nella prima domenica Dio ha armato il suo soldato con le quattro virtù cardinali e la spada della parola di Dio. Ma poiché non si intraprende volentieri la lotta se non si mostra il premio, in questa seconda domenica si fa questo”. Così in questa domenica, in cui leggiamo il Vangelo della Trasfigurazione, l’introito apre la celebrazione cantando il desiderio di vedere il volto di Dio. L’espressione “cercare il volto di Dio” nella Bibbia è usata come sinonimo di “entrare nel Tempio”, cioè nel luogo della presenza di Dio. Questo per gli ebrei era legato al comando per ogni maschio di presentarsi al tempio di Gerusalemme tre volte all’anno (cfr. Es 23,17; 34,23); qui l’ebraico letteralmente dice “vedranno il volto del Signore”[1].
La struttura dell’introito si compone di due frasi speculari, ciascuna divisibile in due emistichi:
- Tibi dixit cor meum / quaesivi vultum tuum
- Vultum tuum, Domine requiram / ne avertas faciem tuam a me.
Dal punto di vista semantico il centro è la ricerca, il desiderio del cuore umano di vedere Dio.
Anche la melodia sottolinea questo tema. Fin dall’inizio lo slancio del desiderio è reso con un movimento deciso di due note ben marcate[2], su “Tibi”, che ci porta subito verso la parte degli acuti. Poi la melodia si ferma e, senza aggiungere alcuna ornamentazione, ripercuote semplicemente sul Do. Questo sembra volerci dire che la ricerca del volto di Dio non può essere un qualsiasi desiderio volubile e fugace, ma deve essere profondo, duraturo e insistente. Ciò che segue ci dà conferma di questo: su entrambi i verbi che significano cercare – “quaesivi” e “requiram” – troviamo infatti due pes quadrati[3] che rendono bene l’idea di una ricerca che richiede decisione e un impegno insistente ed anche un percorso non sempre piano per raggiungere quel Volto che è la nostra Meta. Infatti, prima di tornare a fermarsi sul Do alla fine della prima frase (come già aveva fatto all’inizio su dixit), la melodia gira e rigira in un ornamento tortuoso su “vultum tuum”.
Come S. Agostino scrive nel suo commento a questi versetti: “A te ha detto il mio cuore: ho cercato il Tuo volto. Perché non agli uomini mi sono mostrato; ma nel segreto, dove solo Tu ascolti, ti ha detto il cuore mio: non ho cercato da Te qualche premio che sia all’infuori di Te, ma il Tuo volto. Il Tuo volto, Signore ricercherò. Con perseveranza insisto in questa ricerca: non cercherò infatti qualcosa di poco conto, ma il tuo volto, o Signore, per amarti gratuitamente, dato che non trovo niente di più prezioso”.
La seconda parte inizia ripetendo le parole “vultum tuum” sulle stesse note di “cor meum” (nella prima frase) quasi a dire: è nel Tuo volto Signore che il mio cuore trova la sua corrispondenza, il suo compimento.
La melodia nell’ultima parte si fa accorata. Si avverte quasi la voce di una supplica. Il semitono mi-fa su “faciem” esprime lo struggimento del cuore al solo pensiero che Dio possa volgere il viso lontano da noi. Ancora S. Agostino a questo proposito scrive: “Qualunque cosa al di fuori di Lui non mi è dolce: mi tolga il Signore tutto quello che vuol darmi e mi dia se stesso. Una cosa ho chiesto al Signore, e questa ricercherò, il tuo volto. Non distogliere da me il tuo volto. Quanto insiste in questa sua unica richiesta! Vuoi ottenere? Non chiedere altro: accontentati di una cosa, perché una cosa ti basta”.
In tutto il brano le cadenze rimangono sospese esprimendo l’idea di una ricerca inesausta, che non concede vacanze, un desiderio ardente che non dà riposo; solo l’ultima cadenza arriva alla fondamentale (Mi) è al termine del brano, dove l’ultimo accento è di fiducia e abbandono.
Nota liturgica:
La stazione romana della II domenica di Quaresima è a Santa Maria in Domnica ed è interessante perché questa chiesa si trova sulla cima di uno dei colli di Roma e per raggiungerla, da qualunque parte si arrivi, bisogna necessariamente salire. Questo potrebbe alludere alla salita dei discepoli al Tabor.
In questa domenica sono previsti due possibili introiti: al posto di Tibi dixit infatti si può scegliere anche l’introito Reminiscere[4]. La differenza e complementarietà fra i due introiti si può intuire guardando la Trasfigurazione di Raffaello: nella parte alta c’è l’episodio della Trasfigurazione, con la sua luce intensa, mentre nella parte bassa, e che occupa un grande spazio, c’è l’episodio che, nel Vangelo, segue immediatamente: la guarigione dell’ossesso. Una parte illumina l’altra: la gloria di Gesù trasfigurato guarisce l’indemoniato e anche la tenebra di quest’ultimo trova risposta nella luce del volto di Gesù a cui egli si rivolge con una torsione innaturale, come a dire che con le nostre forze non possiamo vincere il male, solo la luce di Dio ci può liberare. Lo stesso viene detto dai due introiti: la luce del volto di Cristo brilla in Tibi dixit, mentre le nostre tenebre rivolgono a Lui una supplica in Reminiscere.
[1] Secondo il Talmud in queste tre occasioni i sacerdoti compivano un gesto straordinario: toglievano il Pane della Presenza (o Pane del volto), di cui si parla in Es 25, 30, dall’interno del Santo dei Santi, portandolo fuori in modo che i pellegrini ebrei potessero vederlo ed elevandolo davanti a loro dicevano “Ecco l’amore di Dio per voi!” (Talmud babilonese).
[2] Nella notazione antica sangallese qui si trova infatti un pes quadratus. Questo stesso neuma si trova anche su quaesivi, requiram, vultum e faciem.
[3] Si tratta di un gruppo di due note – la prima più grave e la seconda più acuta – su una sillaba, in cui il canto si poggia con decisione su entrambe le note dando maggiore intensità e durata.
[4] “Ricordati delle tue misericordie, o Signore, e delle tue benevolenze che sono eterne, affinché non trionfino su di noi i nostri nemici. O Dio d’Israele liberaci da ogni angustia”, dal Salmo 24