di Madre Augusta Tescari
TRADUZIONI:
Per ricordare il ventesimo anniversario della Beatificazione di Sr. Maria Gabriella, proponiamo una conferenza che la postulatrice o.c.s.o. ha tenuto a Cagliari, alla Facoltà Teologica della Sardegna, in occasione del Congresso “Ecumenismo e monachesimo femminile” nel 1999, sessantesimo della morte della Beata Maria Gabriella.
Questa mia, più che una relazione o una conferenza, è una testimonianza: la testimonianza di una monaca che vive nella stessa comunità di Sr. Maria Gabriella.
Esattamente sessant’anni fa, proprio nell’ora in cui vi parlo, Sr. Maria Gabriella moriva e l’indomani, nella sala capitolare, la sua badessa, M. Pia Gullini, una grande figura profetica che suscitò, orientò e sostenne il suo sacrificio, ne fece l’elogio, dicendo queste parole: “E’ stata una vera trappista: per il silenzio d’amore, per l’obbedienza di docilità, per l’umiltà profonda giunta all’oblio di sé come a stato d’animo. Essa non contava più, non valeva la pena di pensare a quel povero io, corpo o anima che fosse. Era passata nel pensiero della gloria di Dio. Non desiderava, né pregava per altro. Questa figliola che è passata sorridendo, senza mai attirare l’attenzione, senza che nessuna mai abbia avanzato un lamento su di essa; questa figliola che non ha mai disobbedito, che mai ha dato una pena alla Madre Maestra o alla Superiora, se non quell’angoscia di quando la sentirono malata e s’accorsero del tesoro nascosto che possedevano; questa figliola di cui non si saprebbe che dire, guardando il suo breve passaggio fra noi, che sembra non aver fatto nulla, proprio nulla, di questa anima io potrei parlare sino a domani.
Colonna fu e rimarrà colonna: “Faciam illum columnam in templo Dei mei” (Apoc.3,12). Come avrebbe voluto amare il Signore, consumarsi per Lui! Ma non aveva nulla da dare, che le dicessi cosa poteva fare, che lei non soffriva nulla. Come ripagare, dir grazie al Signore per averla portata proprio qui, soddisfacendo appieno al suo istinto soprannaturale? Aveva detto al suo confessore:” Scelga lei, mi mandi dove vuole lei”. Il Padre a questo confidente abbandono rispose con un atto di umile fiducia e la mandò alla Trappa”… e la badessa continua dicendo che, per un istinto che stupiva lei stessa, dato il suo grande senso materno, era stata quasi sempre severa con Sr. Maria Gabriella, cercando – sono sempre parole di M. Pia – di far montare quell’anima squisitamente femminile diritta verso il Cielo, diritta e forte e presto. Era stata esigente nei suoi riguardi e l’aveva spinta a forza verso le altezze, non conoscendo ancora la volontà ferrea dissimulata sotto la sensibilità della giovane suora sarda.
Conosciamo tutti la linearità e la rapidità del suo itinerario: la conversione a 18 anni e il cambiamento radicale che l’incontro con l’Amore produsse sul suo temperamento, che la mamma definì “asprigno”. Entrò in monastero e si consegnò senza riserve e con un’immensa gratitudine a Dio che l’aveva scelta, con la sola paura, dettata dall’amore della donna sarda per la famiglia e la casa, di essere rimandata dalla comunità. L’ascesi monastica, abbracciata con amore gioioso, sviluppò in lei le sue doti migliori: divenne sempre più calma, riflessiva, profonda. Già molto equilibrata per temperamento, ricevette da Dio quella sapienza che svela i misteri del Regno ai piccoli e ai puri di cuore: la sapienza della Croce.
Dopo la professione il dono di sé divenne più completo: “Ormai sono professa: ora, Signore, fa tutto quel che vuoi; se vuoi che muoia, o la malattia, anche se divento tisica – benché nella mia famiglia non ci sia nessuno – sono pronta”. E poi, per un’ispirazione assolutamente straordinaria, l’offerta per l’Unità e il dono della vita come sacrificio: “Mi lasci offrire la mia vita, cosa vale? Io non faccio niente, non ho mai fatto niente. L’ha detto lei che si può fare, col dovuto permesso”. E più tardi: “ Mi par proprio che il Signore lo voglia: mi sento spinta a questo anche senza volervi pensare”. Per quindici mesi poi la sofferenza portata con l’abbandono dell’amore: “ Penso: se morissi oggi, cosa direi? Signore, fate quel che volete” e a chi le suggeriva di dire al Signore di non lasciarla a lungo in Purgatorio, rispondeva: “ Anche per quello non so cosa dire. Quando comparirò dinanzi a Lui, se dovessi dir qualcosa, direi: ‘ Fate quel che volete, mettetemi dove volete e se, per modo di dire, vi dovessi dar gloria anche in inferno, là andrei’. Come vuole il Signore. La mia fragilità però l’affido alla sua misericordia”.
Come spiegare con categorie razionali l’offerta della sua vita per l’Unità? Sr. Maria Gabriella non sapeva quasi nulla delle differenze che separano e spesso oppongono i cristiani, se non le generalizzazioni solite e i luoghi comuni del suo tempo: i protestanti non venerano la Madonna… Gli ortodossi non riconoscono il Papa… Credo che nella sua vita non abbia mai parlato con persone di altra confessione e probabilmente non le ha neppure viste. Ma amava appassionatamente il Signore: se Egli aveva offerto liberamente in sacrificio la sua vita per raccogliere nell’unità i figli di Dio che erano dispersi (Gv.11,52), era per lei una necessità dettata dall’amore accompagnarlo nell’immolazione. Alla sua anima pura sono bastati la passione ecumenica della sua badessa e l’annuncio che già altri avevano dato tutto per la grande causa dell’Unità per pronunciare il suo Eccomi. La spingeva l’ansia del dono totale di sé all’Amato: Ho un carattere così: vedo un sacrificio, bisogna che lo faccia. Ancora a casa ho letto qualcosa sul voto eroico; ho detto:’ Ecco, Gesù, lo faccio subito’.
Il suo solo desiderio era di amare in modo effettivo, pratico, con tutta la dedizione con cui una giovane donna sarda sa amare lo sposo e la famiglia, con realismo e riserbo, ma anche con passione. “Quando si soffre per Gesù manco si pensa che si soffre: durante il noviziato io volevo amare, amare, amare sempre più… Mi pare che si muore d’amore se si vive d’amore, perché in fin di vita si può acquistare l’anima, ma non l’amore”. Pochi giorni prima di morire ricordava la sua forte impressione di fronte a un rimprovero della superiora: aveva svolto il servizio liturgico di invitatrice ma, essendo stonata, pensava di aver fatto tutto male e non credeva alle parole di incoraggiamento della badessa, che finì per dirle: “ Ebbene, pensi pure con la sua testa e così farà piacere a Gesù!” “Far dispiacere a Gesù? Ah, non so cosa mi sentii! Lei andò alla distribuzione del lavoro e io volevo aspettarla, dirle. Ma il dovere era di andare e sono andata. Ma far dispiacere a Gesù, far dispiacere a Gesù, ah!”.
E poi quel grido, la sera prima di morire: “La comunione, se si può, se si può…” “Non posso andare avanti” “ Offre quel che le rimane di vita per l’Unità?” “ Sì “. Visse come cenobita e come solitaria, nella nudità della fede fino agli ultimi giorni: “ Se badassi al sentimento, sarebbe un capitombolo ad ogni momento. Dico: ti amo, ma non sento nulla all’interno… I doni straordinari non sono necessari: si può arrivare lo stesso… rimaniamo all’oscuro fino all’ultimo”.
Sempre più e sempre meglio, con il passare del tempo, dopo la ratifica della santità di Sr. Maria Gabriella da parte della Chiesa, se ne percepisce il messaggio. Ma come è vissuta la sua eredità nella comunità di Vitorchiano, che è il prolungamento storico di quella in cui visse la Beata Gabriella? Come le sue sorelle incarnano nell’oggi che è il loro l’esperienza di dono e di unità che Maria Gabriella visse prima del Concilio?
Chi entra a Vitorchiano lo fa spesso perché attirato da una vita monastica in cui l’ideale ecumenico ha una gran parte, dopo aver letto una biografia di Sr. Maria Gabriella; anche però chi ha conosciuto il monachesimo cistercense per altre vie non può non respirare l’atmosfera di grande interesse e amore per la causa ecumenica, inscindibile da un autentico amore per Cristo e per la Chiesa, che è vissuta in comunità: la preghiera liturgica e personale per l’Unità, sorretta da una discreta informazione, fa parte dell’esperienza vitale di ognuna di noi. In certe occasioni speciali, i valori evangelici e permanenti della vita monastica che possono e debbono fare di un monastero un luogo privilegiato di incontro ecumenico e inter-religioso ci permettono di prendere qualche piccola iniziativa molto modesta. Non direi però che stia qui il nucleo di ciò che abbiamo ereditato da Sr. Maria Gabriella. L’ispirazione a offrire la vita in sacrificio fu fatta a lei personalmente e in questo non possiamo presumere di imitarla. La sua offerta però ci raggiunge in un altro modo. Immerse nel mistero della Chiesa, di cui come contemplative ci sentiamo un po’ il cuore, è a casa nostra, tra noi, che Sr. Maria Gabriella ci chiama a fare unità, convinte che questa è una forma reale, anche se implicita, di ecumenismo.
E’ più che evidente che, dal dopoguerra in poi, la comunità ha conosciuto una fioritura eccezionale, che le ha permesso di fondare altri sei monasteri cistercensi in diverse parti del mondo. Oggi, dopo aver fatto tante fondazioni, siamo ancora 75 e costituiamo la comunità femminile più numerosa dell’Ordine. In maggior parte italiane, proveniamo da tutte le regioni d’Italia, dal Trentino alla Sicilia. Un quinto delle sorelle è straniero, dalle provenienze più diverse: dal Guatemala all’Argentina, dal Portogallo all’Ungheria, dalla Repubblica Ceca al Madagascar. Tutte le fasce d’età sono rappresentate, dai venti ai novantatré anni, ma l’età media della comunità è abbastanza bassa, data la forte presenza di giovani. Le estrazioni sociali diverse, le differenze di cultura e di educazione, di temperamento e di sensibilità, le ricchezze e i limiti di ciascuna ed infine le differenti storie personali fanno della comunità un insieme ricco e complesso. La passione per la Chiesa, già ontologicamente “Una”, ma chiamata a divenire tale anche visibilmente, per noi si traduce nello sforzo di unire tutte le nostre differenze positive, aiutandoci vicendevolmente a combattere quelle negative prodotte dal peccato, convergendo insieme verso il Signore Gesù e conformandoci a Lui, sommamente amato, e divenendo un cuore solo e un’anima sola (At.4,32)… lasciandoci trasformare in Uno, perché il mondo creda (Gv.17,20).
Tutto questo, voi lo indovinate, è più facile dirlo che farlo. Chiamate da Dio a condividere lo stesso carisma cistercense e quindi unite fra noi da legami soprannaturali più forti di quelli della carne e del sangue, abbiamo dovuto imparare (e lo stiamo ancora facendo…) a diventare veramente figlie e sorelle. La comunità ha vissuto la sua ricerca di identità e di unità in un periodo storicamente difficile, usando modalità nuove. Quando, dopo il Concilio, la vita comunitaria è divenuta più dialogica, più tesa a cercare una mentalità comune, più tendente al consensus, pur dando il massimo spazio alle differenze personali legittime, ci siamo dolorosamente accorte di quanto eravamo ancora divise. Cercavamo tutte il Signore, non c’era dubbio, vivevamo con fedeltà le stesse osservanze monastiche, eravamo generosamente a servizio le une delle altre nei compiti materiali che ci erano affidati, e tuttavia non eravamo ancora UNO. Non sapevamo ascoltarci, integrare il pensiero altrui, scambiarci reciprocamente i nostri doni spirituali, rinunciare alle nostre interpretazioni troppo personali sul modo di vivere la vita monastica. Alcune avevano conservato una mentalità pre-conciliare, altre precorrevano il Concilio Vaticano III! Dovevamo imparare a fare tutte unite la verità nell’amore – veritatem facientes in caritate (Ef.4,15) – raggiungendo insieme quella voluntas communis di cui parlano così spesso i nostri primi Padri cistercensi e che è la volontà di Dio cercata e fatta di comune accordo. A poco a poco abbiamo imparato: si è via via venuta creando un’atmosfera di fiducia reciproca, di libertà, di capacità di dialogo, di amicizia che ha impresso nella comunità, pur così grande ed eterogenea, un fortissimo spirito di famiglia e di appartenenza, vissuto nella spontaneità e nella semplicità.
A partire da Madre Pia, che è stata l’ispiratrice e la guida di Sr. Maria Gabriella, si è creata nella comunità una tradizione di superiore che, ciascuna secondo i propri doni particolari, ha favorito l’unione e l’integrazione. Abbiamo avuto soprattutto la grazia di una guida sperimentata nel cammino dell’unità nella persona della badessa che ha governato la comunità durante 24 anni, una donna di levatura eccezionale, il cui insegnamento ci ha aiutate ad approfondire la realtà della Chiesa come mistero di comunione e il cui esempio di dedizione totale ci ha introdotte al dono di noi stesse, senza il quale non ci può essere né vera realizzazione personale, né autentica unità comunitaria.
Il dono sincero di sé come condizione di umanità realizzata, su cui insiste tanto Giovanni Paolo II, esige una disciplina, perché non è qualcosa di spontaneo; da dopo il peccato noi siamo curvi su noi stessi, non aperti agli altri e cerchiamo la nostra piccola felicità nell’appagamento effimero del nostro io egoistico. Una pro-esistenza, una vita per gli altri – come quella di Gesù, che la diede propter nos homines et propter nostram salutem – non ci è naturale. Maria Gabriella, nella sua sconcertante e sapiente semplicità, era penetrata nel mistero: Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà (Mc.8,35). Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (Gv.15,13).
Allo stesso modo l’unità, che pure è l’aspirazione di tutta l’umanità e che per noi cristiani costituisce non qualcosa di facoltativo, ma un imperativo da parte del Signore Gesù, è una realtà da ricevere, da volere e da pagare, difficile da realizzare veramente anche nelle nostre comunità. La vita comunitaria non ha nulla di romantico e noi dobbiamo fare i conti con le nostre ottusità, i nostri limiti e i nostri peccati. Vorremmo essere il segno vivente di quella comunione fraterna per cui Dio ci ha creati, ma anche se riuscissimo con l’aiuto di Dio a dare il massimo di visibilità possibile alla nostra unità, il segno resterà sempre inadeguato e insoddisfacente, finché si manifesti la realtà piena del mistero, quell’unità inconcepibile per cui Gesù ha pregato: Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola…Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità (Gv.17,21.23).
Sia il dono di sé, sia la ricerca dell’unità sono realtà sempre in fieri, sempre da ricevere e da costruire, in una conversione che dura tutta la vita e di cui noi benedettini facciamo l’oggetto di un voto. Questi fondamentali valori evangelici del dare la vita e della comunione fraterna vanno poi trasmessi ai giovani, che hanno il diritto di riceverli e di viverli con l’accentuazione propria di ogni generazione. Molte generazioni di giovani hanno cercato il significato della loro vita, entrando in monastero: le giovani idealiste degli anni 60, le ribelli del 68 e poi le disincantate, e poi ancora le apparenti brave bambine e quelle più motivate aderenti ai movimenti ecc. Tutte, a causa dell’ambiente sociale e culturale di oggi, sempre più fragili e insicure, con una sempre maggior ignoranza dal punto di vista religioso, con una perdita sempre più accentuata del criterio di verità in campo etico, ma disponibili, sincere nella loro ricerca di Dio, desiderose che la loro vita sia riempita di senso, bisognose di amare e di essere amate, capaci di donarsi, portatrici insomma di tutte le qualità e i difetti personali e della loro epoca.
Per queste giovani, che vengono accolte senza pregiudizi e con molto amore, come del resto per le meno giovani che già vivono in monastero, la proposta formativa è stata sempre molto chiara, semplice ed esigente: è una proposta di conversione. E’ basata su alcune linee antropologiche di chiara matrice biblica ed evangelica, interpretate dalla tradizione benedettino-cistercense:
- nella scuola del servizio divino di S. Benedetto, che i fondatori di Cîteaux declinano come scuola della carità, si impara non solo a diventare servitori della volontà del Signore, ma figli e fratelli. L’uomo, spinto dal suo insopprimibile desiderio di felicità, ascolta la voce di Dio che lo chiama alla pienezza della vita, rientra in sé stesso, si riconosce lontano, nella regione della dissomiglianza e, attraverso la fatica dell’obbedienza, intraprende la via del ritorno verso la casa paterna. Può farlo perché ha conservato in sé l’immagine del Padre, pur avendone perduto la somiglianza.
- Nella strada della conversione la conoscenza di sé si affianca sempre all’ascesi, propter emendationem vitiorum vel conservationem caritatis – per emendare i vizi o conservare la carità (RB Prol.47), concepita però come mezzo e non come fine. Col progredire poi nella vita monastica e nella fede scompare il timore servile, si acquista la libertà amante di figli e la via dei voleri di Dio – dice S.Benedetto – si percorre di corsa, con il cuore dilatato, nell’ineffabile dolcezza dell’amore (Prol.49).
- Cristo Gesù è l’unica via che ci riconduce al Padre, il ponte, il perfetto mediatore che ci mette immediatamente e vitalmente in contatto con il Padre e con tutta la creazione del Padre. Via, Verità e Vita, non è solo il modello da imitare, ma la forma da ricevere e a cui conformarci. Abbiamo il suo Pensiero, possediamo il suo Spirito, veniamo trasformati in Lui mangiando il suo Corpo.
- Torniamo al Padre insieme, come Chiesa. I nostri primi Padri chiamavano “Chiese” i nostri monasteri: la Chiesa di Cîteaux, la Chiesa di Pontigny, volendo esprimere la comunione con Cristo, fra i membri della comunità e con tutti i cristiani. Siamo inseriti vitalmente nella Chiesa universale e particolare, di cui esprimiamo il mistero più profondo: quello della Chiesa-sposa, unita strettamente a Cristo, suo sposo.
- La conoscenza di noi stessi come peccatori, ma capaci di conversione a causa dell’indistruttibile immagine paterna che ci portiamo dentro e che suscita la nostalgia della casa da cui ci siamo allontanati; l’ascesi necessaria per percorrere l’aspro cammino del ritorno; la fede e la vita in Cristo Gesù, uomo-Dio, che ridandoci accesso al Padre, ci guida, ci sostiene e ci accompagna, vivendo in noi, sua Chiesa, sono gli elementi che ci permettono di fare l’esperienza del Dio vivo già adesso, in questa vita terrena. Quest’esperienza è legata alla carità. “Convertendo”, cioè sviluppando e purificando la facoltà innata dell’amore, fino a giungere ad amare rettamente Dio, se stessi e il prossimo, possiamo far esperienza del Dio vivente, perché Dio è amore . Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in Lui (I Gv.4,16).
Questa spiritualità cistercense molto semplice, concreta ed esigente è stata vissuta fino in fondo da Sr. Maria Gabriella, che ne ha compreso profondamente la natura unitiva. Se la si vive pagandone il prezzo, forma persone mature, capaci di darsi e di fare unità, veri contemplativi e non contemplativi a metà. E’ questo che viene fondamentalmente proposto come formazione iniziale e come formazione continua e il numero e la perseveranza delle nostre vocazioni testimoniano che la proposta è valida e risponde anche oggi alle esigenze più profonde del cuore dell’uomo. E’ una spiritualità che, nella vita comunitaria, richiede e crea sempre nuove capacità di fiducia, di accoglienza reciproca, di ospitalità mutua, di vera correzione fraterna, di perdono. Il risultato che appare da noi, almeno a detta dei nostri ospiti e anche per convincimento personale di tutte, è quello di una comunità semplice e gioiosa, composta da “ persone normali”, che amano la vita, il Creatore della vita e si amano fra loro. Noi siamo convinte che il lasciarci trasformare da Dio, personalmente e comunitariamente, contribuisce a trasformare e unificare la Chiesa e il mondo: la Chiesa e il mondo che è in noi e al di fuori di noi.
In una vita comune ci sono ovviamente delle tensioni che sono causa di sofferenza: tensioni di ogni genere, che bisogna imparare a non negare, ignorare, sfuggire, esagerare, ma ad affrontare con semplicità e umiltà, facendole diventare una fonte di conoscenza di sé e occasioni per crescere nell’amore. Esistono anche nella nostra comunità, per cui ci troviamo a combattere con la nostra istintività e con la tendenza a drammatizzare subito i conflitti. A volte ci creiamo reciprocamente delle piccole ferite, che potremmo evitare, dato che non ci mancano né la grazia di Dio, né il buon senso, né il senso dell’umorismo così necessario in un vita strettamente comune. Nei dialoghi comunitari, nei dialoghi per gruppi generazionali e nelle revisioni di vita gli attriti vengono generalmente smussati, facendo chiarezza, denunciando senza mezzi termini l’erroneo o il troppo soggettivo, integrando e conciliando ciò che – dopo un attento discernimento – appare buono, ristabilendo la pace e sviluppando l’amicizia. In un quadro di vita ben regolato, ma in cui l’accento è messo più sulla comunione che sulla disciplina, abbiamo imparato ad assumere e amare persone problematiche a causa del loro temperamento o della loro storia, coscienti che tutti, in certe circostanze o fasi della vita, possiamo costituire un problema per gli altri; la comunità aiuta in tal modo a guarire, ad accettare e accettarsi, favorendo l’accoglienza e l’integrazione dei suoi membri più deboli. L’unità comunitaria è cresciuta quando ci siamo curvate con tenerezza materna e fraterna su situazioni di debolezza umana o di limiti invincibili, sperimentando sempre la fedeltà del Signore.
Altre occasioni di unità sono state le fondazioni, che si sono succedute al ritmo di una casa-figlia ogni 5/6/7 anni. Questo continuo dare la vita ad altre comunità, spogliandoci e impoverendoci, ci ha unificate e rese più capaci di donarci; ogni volta si trattava di lavorare ad un progetto comune e poi di veder partire la gente più valida, quella capace di assumere delle responsabilità, restando con le giovani da formare e con le anziane, in qualche caso da assistere. Senza contare che, essendo una comunità numerosa, ci vengono tuttora richiesti dall’Ordine degli aiuti temporanei per monasteri bisognosi e queste richieste non vengono quasi mai respinte.
Viviamo in un tempo di marcato individualismo, di disgregazione, di pretesa adolescenziale di autonomia assoluta, di generale scontento e insoddisfazione: la nostra comunità vorrebbe rispondere a questi fermenti disumanizzanti con la fedeltà al suo carisma cistercense, che è un carisma di unità e di apertura al diverso, offrendoci vicendevolmente la grazia dell’incoraggiamento, dell’aiuto vicendevole, del perdono, del superamento di barriere egoistiche ed istintive. Vivendo con fedeltà i valori della tradizione, incarnati però nelle modalità dell’oggi, vorremmo mettere in pratica quel capitolo della nostra Regola benedettina, che ha un sapore eucaristico: il capitolo 72° sullo zelo buono che debbono avere i monaci: “Come c’è uno zelo amaro e maligno che separa da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna. Questo è lo zelo che i monaci devono esercitare con amore ardentissimo: si prevengano cioè nel rendersi onore; sopportino con somma pazienza a vicenda le loro miserie fisiche e morali; si prestino a gara obbedienza reciproca; nessuno segua ciò che stima utile per sé, ma piuttosto il vantaggio altrui; si voglia bene a tutti i fratelli con amore casto; temano Dio nell’amore; amino il loro abate con sincera ed umile carità; non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca insieme alla vita eterna”.
Questo capitolo raccomanda, espressi in termini monastici, la comunione, l’amore, l’amicizia che univano Gesù e i suoi discepoli e che l’Eucaristia esprime nella maniera più completa. “Fate questo in memoria di me.” Io l’ho fatto una volta per tutte: vi ho amati fino al segno supremo, dando a voi la possibilità di farlo, offrendovi il mio Corpo e il mio Sangue, affinché formiate con i vostri fratelli un solo Corpo. “Fate questo in memoria di me”. Adesso fatelo voi.
Sia pure in modo imperfetto e continuamente da ricominciare, noi speriamo di farlo, con l’aiuto di Maria, la Madre dell’Unità e di Sr. Maria Gabriella.
Al termine di questa testimonianza voi mi direte che la pratica di vita comunitaria che vi ho descritto non ha nulla di esplicitamente e specificatamente ecumenico, ma è semplicemente cristiana: è verissimo, ma questi nostri desiderio e ricerca così forti, non tanto di “fare qualcosa per l’unità della Chiesa”, ma di “essere una Chiesa unita” mi sembrano l’espressione comunitaria più fedele per far rivivere tra noi il carisma ecumenico di Sr. Maria Gabriella.