di Dom Mark Scott
TRADUZIONE:
Inglese
Parte I – Ecumenismo a Grottaferrata
Sr. Maria Gabriella sapeva che sarebbe morta entro un anno. Col permesso della badessa lasciò la sua stanza in infermeria e andò in noviziato. Qui raccolse e distrusse tutti i suoi scritti. “ Sparisco io, sparisca tutto”, disse.
Maria Gabriella aveva ventiquattro anni e voleva morire così com’era vissuta, in silenzio e inosservata. Le persone che la conobbero durante la sua infanzia non avrebbero ricordato nulla di eccezionale a suo riguardo; le sue sorelle in monastero non avrebbero rammentato niente di particolarmente rilevante. Questo era il suo desiderio: essere una santa senza attirare l’attenzione.
Sr. Maria Gabriella morì nella primavera del 1939. Aveva vissuto nel monastero di Grottaferrata appena tre anni e mezzo, ma nel 1940 era già stata pubblicata la sua prima biografia. Comparvero subito numerose edizioni in varie lingue. Seguirono altre biografie e la notorietà di Maria Gabriella si diffuse.
La sua tomba nella cripta del monastero trappista sui Colli Albani, non lontano da Roma, divenne la meta di flussi di pellegrini e devoti provenienti dall’Europa, dalla Gran Bretagna e dall’America del Nord. Nel 1958 venne aperto il processo di beatificazione. Nel 1995 i lettori dell’Enciclica di Giovanni Paolo II sull’impegno ecumenico, Ut unum sint, scoprivano Maria Gabriella Sagheddu, nativa di Dorgali, in Sardegna, e monaca a Grottaferrata, che si offriva loro come modello di compimento del dovere di ogni cristiano di pregare per l’unità dei cristiani.
Sr. Maria Gabriella non ebbe quindi successo nel suo desiderio di scomparire. E neppure distrusse interamente tutti i suoi scritti. Sono rimaste alcune note di lettura e una collezione di quaranta lettere, indirizzate soprattutto a sua madre e alla sua badessa.
Le lettere, prese nel loro insieme, sono la storia di un’anima, convincente e genuina come il pane di Dorgali, che Maria Gabriella faceva in casa, come le altre donne del paese. Considerate la sua età e la provenienza, le lettere suscitano persino delle perplessità. Il lettore rimane colpito, così come lo fu uno dei parenti di Dorgali: le sue lettere sembrano essere state scritte da qualcun altro: “Sono di un livello superiore rispetto alle capacità di Maria Gabriella, la cui istruzione non andava oltre la sesta classe elementare.”
E’ impossibile trovare in questi documenti qualcosa che spieghi gli sforzi di Maria Gabriella per “distruggere i suoi scritti”. Una costante della sua personalità, dall’infanzia al letto di morte, fu la sua limpida onestà. Il contenuto delle lettere è discreto, lo stile parsimonioso, eppure non c’è nessun dubbio che tutta la verità sia lì, così come Maria Gabriella voleva che fosse detta. Le lettere non ci offrono nessun modo di sapere quello che ella stava cercando di tenere nascosto. Ed è precisamente questa la chiave del problema, perché Sr. Maria Gabriella aveva un segreto. Si tratta dell’unica cosa che non scrisse mai a casa. Il suo segreto era una decisione che aveva preso: una volta presa la decisione con l’approvazione dei suoi superiori, non ne parlò più, nemmeno una volta, nemmeno a loro. A parte i due o tre superiori di Maria Gabriella, solo sua madre Caterina Sagheddu e Dom Benedict Ley dell’abbazia benedettina anglicana di Nashdom furono messi al corrente ( non da lei!) del segreto prima della sua morte.
L’ipotesi più attendibile, quindi, a proposito di ciò che Maria Gabriella desiderava distruggere con i suoi scritti era questa eccezionale decisione, il suo unico segreto. Il seguito degli eventi le diede ragione. Poiché il suo segreto, reso noto dopo la morte, ebbe come conseguenza proprio quello che ella aveva tentato di evitare: l’attenzione su di sé.
Maria Gabriella, nel gennaio 1938, aveva deciso di offrire la sua vita per la causa dell’Unità dei Cristiani. Il suo segreto era l’anima della sua esistenza, la spiegazione della sua morte, la forma della sua santità. E si rivelò anche in grado di incidere sul destino della sua comunità monastica.
Sei mesi dopo la sua offerta, la badessa di Maria Gabriella, Madre Pia Gullini, scrisse alla mamma di Sr. Maria Gabriella: disse a Caterina Sagheddu dell’offerta di sua figlia, le riferì che sua figlia si era gravemente ammalata di tubercolosi. Maria Gabriella morì il 23 aprile 1939. Il 26 aprile Madre Pia scrisse di nuovo a Caterina. Fu una lunga lettera, da donna a donna – meglio – da madre a madre.
Madre Pia descrisse nei minimi particolari a mamma Caterina le ultime ore di sua figlia: “Giovedì 20…. Dopo la cena di quel sabato…. Intorno alle 2 della notte…. Alle 4 del pomeriggio…. Alle 5.30, con la massima serenità, smise di respirare. Abbassò le palpebre proprio come era solita fare per dire ‘sì’, quando non poteva parlare. Era già con il suo Signore. Lo amava talmente da offrirgli il sacrificio della sua giovane vita per l’unione delle Chiese separate. Era la domenica del Buon Pastore e il Vangelo parlava delle ‘altre pecore che non sono dell’ovile e devono esservi condotte.’” Il mattino successivo Madre Pia parlò alle monache di Grottaferrata riunite in capitolo. “Sr. Maria Gabriella è stata una vera Trappista…. Ha completamente dimenticato se stessa nella sua ricerca della gloria di Dio…. E’ passata sorridendo fra noi senza mai attirare l’attenzione su di sé, senza mai provocare la lamentela di qualcuno su di lei… se non per l’angoscia che provarono quando appresero che era malata e scoprirono il tesoro nascosto che possedevano”. Sr. Maria Gabriella era la figliola di Madre Pia, la sua piccola figlia. Maria Gabriella si concepiva come una “pigmea nella via dello spirito”, ma per Madre Pia era “la saggezza delle saggezze”. Più tardi Madre Pia dirà che Maria Gabriella era una ‘luce pacificante’. Ma se Maria Gabriella era una luce, Madre Pia era la lente che la metteva a fuoco, e il monastero di Grottaferrata la superficie strutturata sulla quale cadde per essere vista. Maria Elena Gullini era, da parte sua, una donna dal temperamento forte e fiero che aveva permesso a se stessa di innamorarsi del Dio incarnato. Entrò nell’Ordine dei Cisterciensi della Stretta Osservanza a Laval, in Francia, nel 1917, all’età di venticinque anni. Le venne dato il nome di Pia perché aveva ricevuto la Prima Comunione da Papa Pio X. Dopo nove anni di vita trappista a Laval, per il fatto che era italiana, Sr. Pia fu mandata ad aiutare il monastero di Grottaferrata, in Italia. Grotta, come era chiamata, era una comunità trappista fervente, culturalmente arretrata, materialmente povera. Quando Madre Pia arrivò a Grotta portò con sé da Laval una cultura monastica e un vigore spirituale basati sulla liturgia e sulla dottrina. Eletta badessa nel 1931, quattro anni prima dell’entrata di Maria Gabriella, Madre Pia aprì alle sue figlie le dottrine ascetiche di J.P. de Caussade, Francesco di Sales, Teresa di Lisieux e Dom Vital Lehodey. Madre Pia spinse soprattutto questa volonterosa ma ignara comunità verso un apostolato praticamente sconosciuto alle donne religiose italiane del tempo e alle Trappiste di ogni nazionalità: il “movimento ecumenico” recentemente iniziato. Nella metà degli anni ’30 Madre Pia era stata introdotta alle speranze e alle sfide dell’ecumenismo da una laica francese, Henriette Ferrari. Nel 1936 era già in contatto regolare con Paul Couturier, il grande promotore della ‘Settimana di Preghiera per l’Unità dei cristiani’. Attraverso Don Couturier, Madre Pia iniziò un attivo scambio di lettere con il benedettino anglicano Dom Benedict Ley. L’idea che ebbe Madre Pia di pubblicare la biografia di Maria Gabriella nel 1940 era una lungimirante tattica al servizio dell’Unità dei cristiani. Negli anni ‘50 ella noterà: “Sono in stretto contatto con i fratelli di Taizé, il cui giovane fondatore, insieme a sua madre e a Fratel Max, vennero a Grotta nel 1950. Scesero tutti alla tomba di Sr. Maria Gabriella.” L’amicizia fra Madre Pia e Madame Schutz durò fino alla morte di quest’ultima. Nel 1983, quando Giovanni Paolo II beatificò Sr. Maria Gabriella, patrona dell’Unità, Fr. Roger era presente nella basilica di San Paolo Fuori le Mura. Nel 1947 il benedettino anglicano Dom Benedict Ley fece la sua prima visita a Grottaferrata. Sistemato presso l’alloggio del cappellano, Dom Benedict trascorse moltissimo tempo in preghiera sulla tomba di Sr. Maria Gabriella. Avendo Grotta come base, incontrò Monsignor Montini della Segreteria di Stato per discutere dei rapporti fra anglicani e cattolici in Inghilterra. Durante i successivi dieci anni Dom Benedict visitò Grotta altre due volte. In seguito ai suoi racconti, una cinquantina di anglicani, ortodossi e protestanti provenienti dall’Inghilterra, visitarono Grotta, alla spicciolata, dal 1948 al 1951. Tutti furono profondamente colpiti dall’accoglienza calda e fraterna che ricevettero da Madre Pia e dalle altre monache. “Non posso dirvi quanto siano state buone con me le Trappiste di Grottaferrata”, disse un visitatore anglicano nel 1949, “hanno preparato una magnifica cena in onore della mia missione, una vera agape, e mi hanno perfino dato dei regali!” Nel loro notiziario del 1950 le monache di Grotta comunicarono all’Ordine Cisterciense: “I visitatori a Grotta sono stati abbastanza continui durante questo Anno Santo, giungendo da ogni parte d’Italia e dall’estero. Fra i nostri amici pellegrini c’è un buon numero di fratelli separati…. A settembre si è tenuto un importante incontro internazionale di esperti nell’area dell’Unità dei cristiani presso l’abbazia greco-cattolica di San Nilo a Grottaferrata. Data la vicinanza e l’interesse che l’argomento ha per noi, siamo state in grado di seguire da vicino i tre giorni di conferenze.” L’entusiasmo di Madre Pia Gullini per l’Unità dei Cristiani si sarebbe sposato con il segreto impossessarsi di Maria Gabriella Sagheddu della preghiera di Gesù “che tutti siano uno”. Se per M. Pia l’ecumenismo era un segno dei tempi che stimolava la sua profetica risposta ecclesiale, per Maria Gabriella era il desiderio del suo sposo, a cui aderire con tutta l’anima. “Gesù, ti amo! Ti ringrazio! In queste poche parole tutto è detto… Che Tu sia glorificato in me.” La fama che derivò alle trappiste di Grottaferrata dallo zelo della loro badessa per l’ecumenismo e il successo travolgente della biografia di Maria Gabriella del 1940 e delle successive cinque edizioni non passarono inosservati alle autorità dell’Ordine Cistercense. Vi guardavano con molta incomprensione. Il risultato per Madre Pia fu il rapido, prematuro abbandono della sua carica abbaziale nel 1951 e l’immediato esilio in Svizzera. A quel tempo Grotta era coinvolta nell’ecumenismo da più di un decennio. Dire che la comunità delle trappiste era in anticipo rispetto ai tempi è dire troppo poco. Uno storico di quel periodo dice che nell’Italia degli anni ’30 “ era violenta più che vivace, malevola e spesso inurbana la polemica tra cattolici e protestanti. Non è certo una pagina di edificante carità l’ostilità con cui si sogguardavano le due parti avverse, piene di rancori e di sospetti”. Invece questo gruppo di monache umili e povere, che lavoravano duro, soddisfaceva pienamente al desiderio che Pio XI espresse davanti al Concistoro del 24 marzo 1924: “Saremo grati a tutti i cattolici che si sforzano, sotto l’impulso della grazia divina, di facilitare l’ingresso alla vera fede dei fratelli separati, chiunque essi siano, dissipando i loro pregiudizi, avendo presente l’insegnamento cattolico non adulterato, e soprattutto rendendo evidente in se stessi la caratteristica dei veri discepoli di Cristo: l’amore vicendevole.” Mentre alcune autorità della Chiesa sembravano decise a difendere le basi della divisione, Madre Pia e la comunità di Grotta erano fra i più ferventi e attivi sostenitori in Italia della Settimana di preghiera per l’Unità dei cristiani. Se Roma intendeva la riunione come il ritorno all’ovile in seguito alla rinuncia degli errori, Madre Pia seguiva la linea di Paul Couturier: pregare affinché sia fatta la volontà di Gesù con i mezzi che Egli sceglie. “E’ dalla posizione dell’amicizia che i cattolici e i protestanti hanno bisogno di cominciare, allo scopo di trovare – come fratelli – un terreno comune…. E’ l’amore che conta, l’amore che è unione, reciprocità.” Non ci sono molti dubbi sul fatto che la giovane sarda, Sr. Maria Gabriella Sagheddu, fosse il centro silenzioso e nascosto dell’audace e coraggioso servizio di Madre Pia a Grotta e alla Chiesa. “La vado a trovare tutte le sere”, confidò Madre Pia prima che Maria Gabriella morisse, “e le confesso che per me è una gioia, una forza, un vero ristoro spirituale.” Nel 1948 Madre Pia scrisse una lettera all’autrice francese che stava svolgendo delle ricerche per una nuova biografia di Maria Gabriella. “Anni di esperienza riguardo a questo problema della ‘Riunione’ mi hanno portato a capire che il successo del suo libro dipende dal fatto che non c’è assolutamente niente nella vita di M. Gabriella che si possa usare come spunto per una controversia…. Coloro che ignorano il problema giungeranno a comprenderlo, grazie all’esempio di Sr. Maria Gabriella. Coloro che sono degli esperti nell’ecumenismo troveranno in lei un riposo che non hanno mai conosciuto prima, una luce pacificante, un orizzonte nuovo in grado di disporli ad amare piuttosto che a discutere.”
Parte II – L’atto di fede.
Il 16 gennaio 1938 era domenica: le cinquanta monache della comunità trappista di Grottaferrata erano riunite nella sala del capitolo del monastero per ascoltare l’insegnamento della loro badessa, Madre Pia Gullini. Fra loro c’era la ventitreenne Sr. Maria Gabriella Sagheddu. In quella particolare domenica Madre Pia lesse a voce alta e commentò l’opuscolo dell’Abbé Paul Couturier, che annunciava quella che allora si chiamava “la Settimana dell’Unità”. La “Settimana dell’Unità” era l’annuale crociata di preghiera dal 18 al 25 gennaio per la guarigione delle divisioni e la riunione della Chiesa. Nel 1932 il sacerdote francese Paul Couturier aveva iniziato a promuovere attivamente la Settimana dell’Unità, applicando ad essa la sua idea di “ecumenismo spirituale”. Egli aveva compreso che l’unità materiale esterna doveva essere preceduta da un’unità essenziale interna, espressa da un gran numero di anime che pregavano e offrivano se stesse in unione all’offerta di Gesù. Gli piaceva prevedere un “monastero invisibile”, una comunità di preghiera e sacrificio, che non fosse limitata da una denominazione o da uno stato di vita. Nel 1936 l’Abbé Paul Couturier aveva pubblicato il suo primo opuscolo e l’anno seguente ne aveva diffuso più di 1500 copie. Per la prima volta una copia arrivò anche a Grottaferrata, su richiesta di Madre Pia, che la lesse in Capitolo alle monache. Ora, il 16 gennaio 1938, Madre Pia lesse per il secondo anno consecutivo l’opuscolo dell’Abbé Paul alle sorelle: “La preghiera rimarrà il centro luminoso e vivente [del lavoro per l’Unità dei cristiani]…. Con la partecipazione aperta e simultanea di tutti, in ogni luogo della Chiesa divisa, durante questi giorni dal 18 al 25 gennaio, la preghiera guiderà la Chiesa sulla via dell’Unità. Solo la sofferenza della disunione può aprire i cuori di tutti i cristiani e porli in ascolto del dolore nascosto nella preghiera di Cristo al Padre durante l’Ultima Cena…. ‘che tutti siano uno in noi… così che il mondo creda’”. L’opuscolo continuava. “Che ci sia un’abbondante messe di offerte allo Spirito da parte di vite ignote e nascoste per collaborare a questo grande lavoro di riunione dei cristiani.” L’Abbé Couturier proseguiva il discorso presentando tre esempi di cristiani che avevano recentemente offerto la loro vita per la causa dell’Unità. Fra loro nominò – e fu una rivelazione per molte delle monache – Madre dell’Immacolata Scalvini, che era proprio membro della comunità di Grottaferrata. L’anno precedente, all’età di settantotto anni, Madre dell’Immacolata aveva offerto la sua vita per la causa dell’Unità dei cristiani in risposta all’opuscolo dell’ Abbé Couturier, letto in capitolo. Era morta un mese più tardi. Ascoltando questi appelli all’ecumenismo spirituale, Sr. Maria Gabriella non poté evitare di commuoversi. Una volta aveva detto alla sua maestra delle novizie: “Non saprei come descrivere la mia vita interiore. Cerco semplicemente occasioni per fare sacrifici… Li affronto e agisco.” Non sorprende, quindi, che subito dopo aver sentito la lettura dell’opuscolo del 1938 Sr. Maria Gabriella abbia bussato alla porta dell’ufficio della badessa. “Mi permetta di offrire la mia vita” – Madre Pia ricordava la sua richiesta. “A che vale dopotutto? Non sto facendo niente. Non ho mai fatto niente. Lei stessa ha detto che si può fare questa offerta con il permesso.” Dopo un prudente discernimento, il permesso fu accordato. Fu tutto, e non se ne parlò più. E’ difficile scrivere di Maria Gabriella Sagheddu. E’ difficile, perché la sua vita non rientra nell’ambito di tutti quei modelli drammatici che la maggior parte di noi, nel mondo occidentale, considera “vita reale”, avvenimenti, talenti e qualità, successi e fallimenti. Né si tratta di una questione di “relazioni”, almeno non di quel tipo di relazioni proprie degli Europei occidentali e degli Americani del Nord, negli sceneggiati televisivi, spettacoli settimanali e talk show radiofonici. La vita di Maria Gabriella fu invece puramente spirituale, almeno dopo la conversione avvenuta all’età di diciotto anni. “Il mio solo desiderio, disse una volta, è… di farmi santa”. Questo era vero amore di sé, ma non egoismo. Voleva essere una santa, non per amore di sé, ma per amore di Dio e del prossimo. Qualcuno disse di lei: “Non era viziata” e non è necessario aggiungere altro. La sua vita, da giovane adulta e da monaca, fu come una freccia tirata che fende l’aria, tesa in avanti verso il bersaglio, ma ancor più attirata da esso ad una velocità sempre crescente. Maria Gabriella Sagheddu entrò nel monastero delle trappiste di Grottaferrata il lunedì 30 settembre 1935. Aveva ventun anni. Uno dei suoi vicini di Dorgali disse più tardi: “Quando ho saputo che Maria Sagheddu stava pensando di farsi monaca non ci potevo credere… Non mi sembrava il tipo da andare in convento.” Molti altri sarebbero stati d’accordo. La personalità di Maria Gabriella da bambina era caratterizzata da aspetti contraddittori: da un lato era onesta, gioiosa e ottimista. Malgrado avesse dovuto lasciare la scuola all’età di dodici anni, era una allieva eccellente. Amava leggere, specialmente i romanzi, ed era sempre pronta ad aiutare i compagni nei loro compiti. Dovere, lealtà e obbedienza erano valori primari per la giovane Maria Gabriella. Fisicamente forte e in salute, non esitava a sostenere la parte più pesante dei lavori domestici e dei campi. Ma, allo stesso tempo, la giovane Maria Gabriella era dispettosa, impaziente ed esigente. Voleva avere sempre ragione e avere l’ultima parola. Si aspettava che gli altri fossero onesti e schietti come lei. “Va’ alla malora! Accidenti!”, diceva quando gli altri venivano meno alle sue aspettative. Se qualcosa non andava secondo il suo punto di vista, batteva i piedi con rabbia e frustrazione. Entrambe queste caratteristiche, progressivamente trasformate, ordinate e poste al servizio di una finalità tenacemente perseguita, coloreranno il carattere di Maria Gabriella per il resto della sua vita. Durante l’infanzia e la prima adolescenza la pratica religiosa di Maria era minima, cosa che non passò inosservata nell’ambito della tradizionale cultura cattolica di Dorgali, ampiamente concentrata sugli atti di devozione religiosa e parrocchiale. Battezzata una settimana dopo la nascita, Maria fece la Prima Comunione all’età di dieci anni, ma in seguito, fatta eccezione per il precetto domenicale, trascurava i sacramenti e le funzioni religiose. “Non aveva l’abitudine di andare in chiesa”, ricorda la gente. “Preferiva leggere romanzi, fare partite a carte o a qualche gioco da tavola.” Se la madre la esortava ad andare alla benedizione della sera, Maria rispondeva: “Andateci voi!” oppure: “Non è necessario. Lasciatemi stare!” e rimaneva assorta nella lettura o nel gioco. Ma quando Maria Gabriella ebbe diciotto anni una pacifica rivoluzione si fece strada nella sua anima. Non ne parlò mai. Non era obbligata a farlo. Tale rivoluzione generò frutti di conversione, e questi parlarono per lei. Si iscrisse all’Azione Cattolica e cominciò a insegnare il catechismo ai bambini. Visitava regolarmente gli ammalati, interessandosi particolarmente di una giovane donna con un figlio illegittimo. Strinse amicizia con una ragazza di cattiva reputazione e l’aiutò a superare il suo comportamento distruttivo. Non respinse mai le persone che chiedevano l’elemosina, e spesso si alzava il mattino presto per aiutare i vicini a fare il pane. Si ricorda che “cominciò a meditare, a fare l’adorazione mensile… Si confessava quasi tutte le settimane e riceveva quotidianamente la Comunione… La vedevo spesso inginocchiata in preghiera davanti al Santissimo Sacramento. Ciò che mi colpiva era il suo atteggiamento di profondo raccoglimento. Non vi era nulla di sdolcinato, anzi, c’era in esso una grande austerità.” Non molto tempo dopo la conversione Maria Gabriella prendeva in considerazione la vocazione religiosa. Aveva visto altre giovani donne lasciare Dorgali ed entrare a Grottaferrata. Parlò quindi al suo viceparroco, Don Basilio Meloni, riguardo a questa possibilità anche per lei. “Vuoi andare a Grottaferrata, allora?”, le chiese don Meloni. “Mandatemi dove volete.”, rispose Maria. “Allora è a Grottaferrata che andrai”, decise Don Meloni. Nel luglio del 1938, sette mesi dopo l’offerta di Sr. Maria Gabriella, Madre Pia scrisse una lunga lettera al benedettino anglicano Dom Benedict Ley. Dom Benedict, maestro dei novizi dell’abbazia di Nashdom, era un amico “ecumenico” di Madre Pia già da qualche tempo. “Ho letto in capitolo l’invito del suo amico Don Couturier, come feci lo scorso anno. Una monaca, giovane professa, di appena ventiquattro anni, mi ha chiesto di fare la stessa offerta di Madre dell’Immacolata. Le ho dato il permesso… Ora la sorella è in infermeria, malata di tubercolosi; era una delle più forti in comunità, e non c’è assolutamente nessun precedente di questa malattia nella sua famiglia…Si tratta di Sr. Maria Gabriella, una bella figlia… dotata di un’intelligenza non comune. Solo ora che il Signore la sta chiamando, mi accorgo di quale tesoro ella sia.” Un mese prima Madre Pia aveva scritto alla madre di Sr. Maria Gabriella, Caterina Sagheddu, informandola delle gravi condizioni della figlia. “Per me è un grande dolore. Ma sapendo che Sr. Maria Gabriella ha offerto la sua vita al Signore per una delle cause più nobili, cioè per affrettare l’unione delle Chiese dissidenti, mi rendo conto del fatto che il Signore ha accettato l’offerta. Sua figlia mi ha detto: ‘Dal giorno in cui ho offerto me stessa, non sono più stata bene nemmeno una volta.’” Durante un periodo di quaranta giorni in un ospedale romano, Sr. Maria Gabriella si sottopose a un umiliante trattamento che ebbe come unico effetto l’aggravarsi della sua condizione di tubercolotica. Ritornò a Grottaferrata nel maggio del 1938. Il 23 aprile 1939, proprio dopo il suo venticinquesimo compleanno, Sr. Maria Gabriella morì fra le braccia di Madre Pia nell’infermeria del monastero. Durante l’ultima agonia Madre Pia chiese a Maria Gabriella: “Offri tutto per l’Unità, vero?” La monaca morente rispose semplicemente: “Sì”. Madre Pia scrisse alla madre di Maria Gabriella, informandola della morte di sua figlia. Ricordò che il 23 aprile di quell’anno era la domenica del Buon Pastore. Il Vangelo parlava delle “ altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre.” Madre Pia rammentò a Caterina Sagheddu che sua figlia “amava tanto il suo Signore da offrirgli il sacrificio della sua giovane vita per l’unione delle Chiese separate.” Quando il benedettino anglicano Dom Benedict Ley seppe della morte di Maria Gabriella, notò che il 23 aprile era anche la festa di San Giorgio, patrono d’Inghilterra. “Prenderà i nostri…. sforzi….per l’Unità sotto la sua speciale protezione”, disse. Dom Benedict fu così gentile da mandare le condoglianze a Caterina Sagheddu. “Spero che mi permettiate di dire – scrisse – che il sacrificio di vostra figlia mi obbliga a una maggior fedeltà a Cristo e a una preghiera più profonda per la riunione dei cristiani sotto l’autorità del Papa.” Se si eccettuano dei brevi accenni alla sua badessa, come quelli sopra citati, Sr. Maria Gabriella non fece mai riferimenti espliciti alla sua ‘offerta’ per l’unità. Tuttavia la raccolta delle quaranta lettere rimaste, scritte da Sr. Maria Gabriella, rivela che questa offerta era il cuore della sua identità di cristiana e di monaca cistercense. L’offerta della vita per l’unità ha dato una forma precisa alla sua spiritualità. Divenne il luogo del suo incontro con Dio. Le lettere di Sr. Maria Gabriella sono degne della migliore letteratura epistolare: spontanee, profonde, a volte irregolari, sempre rivelatrici dell’autrice, sono veramente affascinanti. In esse Maria Gabriella usa tre serie di immagini, o tre modalità espressive, per scrivere della sua offerta. Il linguaggio del “santo abbandono” ricorda J.P. de Caussade e Teresa di Lisieux; le immagini sponsali o nuziali richiamano Bernardo di Clairvaux, Jan van Ruysbroeck e Giovanni della Croce e i campi semantici di “amore”, “gioia”, “gloria”, “consacrazione” e “pienezza” sono chiari echi dell’ultimo discorso di Gesù, la sua preghiera per l’unità, nel Vangelo di Giovanni, dal capitolo 13 al 17, capitoli che Maria Gabriella lesse con particolare intensità durante la sua malattia finale. E’ evidente che fece suo ciascuno di questi linguaggi tradizionali, visto che riuscì così facilmente ad armonizzarli. Negli esempi che seguono sono evidenti il linguaggio dell’abbandono, le immagini nuziali e gli echi del Vangelo di Giovanni. In una lettera al suo ex-direttore spirituale di Dorgali, Maria Gabriella lo assicura: “Sarò felice e la mia felicità è davvero grande. Che gioia poter soffrire qualcosa per amore di Gesù e per le anime. Ho compiuto un grande atto di abbandono nelle mani del Signore, e il mio cuore e la mia anima sono ora immersi in una profonda pace, una grande gioia. Quando penso al giorno benedetto in cui andrò in cielo ad abbracciare lo Sposo Celeste, allora la mia gioia e la mia felicità superano ogni cosa sulla terra!” Nell’aprile del 1938 Maria Gabriella scrisse a sua madre dall’ospedale. “Pregate per me, perché io glorifichi sempre il Signore facendo la sua divina volontà, qualsiasi forma questa dovesse prendere…. Mi sono interamente offerta a Gesù e non ritratterò la mia parola.” Alcune settimane più tardi, dopo che l’analisi di un espettorato si era rivelata positiva, scrisse a Madre Pia: “Il primo giorno ho sofferto molto; poi, ieri pomeriggio, ho sentito una grande forza mettere radici nel mio cuore e mi sono completamente rassegnata alla volontà di Dio, accettando di soffrire per la sua gloria…. Le assicuro che il mio sacrificio è totale, perché dall’alba alla sera non faccio altro che rinunciare alla mia volontà, alle mie speranze, ai miei desideri e a tutto ciò che è in me, santo o manchevole che sia, in tutto e per tutto. All’inizio non c’era modo di piegare il mio cuore; ora comprendo veramente che la gloria di Dio e l’essere una vittima non consiste nel fare grandi cose, ma nel totale sacrificio del proprio io”. Ancora, scrivendo a sua madre: “La gente del mondo dice che siamo egoiste, chiudendoci in un convento e pensando solo a noi stesse. Non è vero. Viviamo una vita di sacrificio continuo, fino al punto di immolarci per la salvezza delle anime…. In monastero ogni azione, perfino la più ripugnante, perfino il non fare assolutamente nulla, se è richiesto dall’obbedienza, porta con sé un grande merito. In un’altra lettera a Don Meloni Sr. Maria Gabriella confidava: “Vivendo in abbandono, non ho dovuto rimpiangere il passato nemmeno una volta; e per di più, sono perfino certa di cosa sarà il futuro e sicura che Gesù farà ciò che è a sua maggior gloria e quello che è meglio per la mia santificazione…. Gesù mi ha scelto come oggetto privilegiato del suo amore, donandomi la sofferenza per essere più simile a lui, e per questo sono perfettamente felice e lo ringrazio. Penso che non arriverò mai a comprendere abbastanza l’amore che Gesù mi dimostra nell’offrirmi questa croce.” E’ stata la tradizione ascetica della Chiesa a dare a Maria Gabriella un linguaggio per esprimere le sue speranze più profonde e le esperienze più intime di Dio. Ma queste stesse speranze ed esperienze non possono essere ridotte a ripetizioni di formule classiche, o messe da parte come se fossero pure derivazioni. Se occorre dare alla risposta di fede di Maria Gabriella una posizione precisa nella storia della spiritualità cristiana, bisogna situarla nel monachesimo benedettino fondato sulla lectio divina e sulla liturgia. E’ quanto affermò Papa Giovanni Paolo II nella sua omelia in occasione della beatificazione di Maria Gabriella, il 25 gennaio 1983. “Ebbe la capacità, disse il Papa, di ricevere e mettere in pratica con ‘l’intelligenza dell’amore’ la ‘scuola del servizio del Signore’ di San Benedetto… E’ precisamente nella fedeltà all’ascolto che Maria Gabriella riuscì a realizzare quella ‘conversione del cuore’ che San Benedetto chiede ai suoi figli; conversione del cuore che è la vera e primaria fonte dell’unità.” La vita di conversione di Maria Gabriella e il dono di sé a Dio in risposta all’invito del suo amore sono esempi originali di fede biblica. Sono tanto originali quanto unici in se stessi, come il fiat di Maria di Nazareth, come il “Sono venuto…. per dare la mia vita in riscatto per molti” di Gesù, come “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo per amore del suo corpo, che è la Chiesa” di San Paolo. Maria Gabriella compì il suo atto di fede quando era ancora a Dorgali: “Basta che Dio mi chiami, ed io sono pronta.” Il giorno della sua professione monastica lo rinnovò: “Nella semplicità del mio cuore ti offro tutto lietamente, o Signore. Ti sei degnato di chiamarmi a te e…. ho dato 9 tutto ciò che era in mio potere.” Qualche mese prima della sua morte Maria Gabriella confessò: “Mi sono totalmente abbandonata nelle mani del Signore… Sento di amare il mio Sposo con tutto il mio cuore, ma lo voglio amare ancora di più. Voglio amarlo per coloro che non lo amano, per coloro che lo disprezzano, per coloro che lo offendono: in breve, il mio desiderio non è nient’altro se non amare.” “La Beata Maria Gabriella Sagheddu” disse Giovanni Paolo II nell’omelia della beatificazione “è divenuta un segno dei tempi ed un modello di quell’ ‘Ecumenismo Spirituale’ che il Concilio Vaticano Secondo ci ha ricordato. Ci incoraggia a guardare con ottimismo – al di là delle inevitabili difficoltà che sono nostre in quanto esseri umani – alle meravigliose prospettive dell’unità ecclesiale, il cui progressivo realizzarsi è legato all’aspirazione sempre più profonda di convertirsi a Cristo, al fine di rendere effettivo ed operante il suo intenso desiderio: Ut omnes unum sint!” Dom Mark Scott, O.C.S.O. , Abate del monastero trappista di Ava (USA)