Quarta domenica di Avvento – Rorate coeli

Testo:

Rorate coeli desuper, et nubes pluant justum: aperiatur terra, et germinet Salvatorem.

Traduzione:

Stillate cieli dall’alto, e le nubi piovano il giusto. Si apra la terra e germini il Salvatore.

(Is 45,8)

Commento:

Il testo è tratto dall’oracolo di Isaia in cui Dio stesso incarica Ciro – un re straniero – di compiere la Sua opera redentrice. Il versetto ripreso dall’introito, in particolare, fa parte di un breve inno in cui cieli e terra sono invitati a far sprigionare dall’alto e dal basso la salvezza. In un versetto ricorrono quattro verbi imperativi (stillate, piovano, si apra, germini) che ricordano i comandi con cui Dio crea al principio. Isaia suggerisce in questo modo che ciò che qui avviene è una nuova creazione: Dio compie qualcosa di completamente nuovo, interviene nella storia per la salvezza del popolo eletto. Ma il testo dell’introito usa le esatte parole della Vulgata di S. Girolamo che ha apportato due importanti modifiche rispetto al testo ebraico: al posto di “giustizia” ha messo “il Giusto”, e al posto di “salvezza” ha scritto “il Salvatore”. Risulta qui evidente che Girolamo nella sua traduzione aveva a cuore soprattutto di far emergere Cristo in tutti i passi della Scrittura che lo rivelavano. Così i concetti di giustizia e di salvezza si personificano, si incarnano nella persona del Giusto, del Salvatore. La profezia di Isaia si realizza in Cristo.

Per l’imperativo “Rorate” viene usata una formula tipica del primo modo, che serve a farci puntare immediatamente l’attenzione su un vertice che da subito segna tutto ciò che seguirà[1].

La scelta del primo modo non appare casuale: si tratta di un modo molto espressivo, che per la sua struttura si presta bene a descrivere con la melodia l’azione. Così, ad esempio, su “coeli desuper” abbiamo le note più acute dell’intero brano e “pluant justum” (piovano il Giusto) è realizzato in linea discendente attraverso una pioggerella di note. Allo stesso modo, dopo che su “aperiatur” la melodia ascendente ha descritto bene il movimento di apertura quasi di un fiore che sboccia, nella frase conclusiva su “terra” scendiamo alla zona più grave e, dopo essere risalita come un piccolo germoglio, la melodia di nuovo ridiscende imitando l’abbassamento del Salvatore.

Siamo nella domenica più prossima al Natale e le letture parlano dell’imminenza dell’evento. La domanda “Rorate coeli desuper” è presupposto e commento al Vangelo di tutti e tre i cicli di letture:

  1. Il sogno di Giuseppe che da vero giusto sa riconoscere la venuta del Giusto;
  2. L’annunciazione in cui la “nostra terra”, la carne di Maria e il suo cuore, si aprono ad accogliere la rugiada dello Spirito che porta il Verbo;
  3. La visitazione in cui Giovanni Battista ancora nel grembo di Elisabetta, e la stessa madre riconoscono e accolgono lo Spirito che rivela loro la presenza di Gesù in Maria.

L’introito Rorate era previsto in origine per il mercoledì della III settimana di Avvento, infatti nei primi secoli questa domenica era detta “vacat” perché in quei giorni si celebrava il digiuno delle Tempora invernali[2] e il sabato si concludeva con una vigilia molto solenne che terminava all’alba della domenica con la S. Messa in cui erano inserite le ordinazioni sacerdotali. A Roma la statio[3] era a Santa Maria Maggiore per mettere i nuovi candidati al sacerdozio sotto la protezione di Maria. A partire dal secolo VIII, quando i riti della vigilia furono anticipati al sabato mattina, che la domenica fu dotata di messa propria, ma poiché non erano previsti canti propri furono adattati alla liturgia domenicale i brani della messa del mercoledì precedente in cui si leggeva il Vangelo dell’Annunciazione e che era detta “Missa aurea beatae Mariae” perché era d’intonazione spiccatamente mariana e in essa si faceva memoria della profezia di Isaia sulla vergine che concepisce e dà alla luce l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Per questo motivo ancora oggi ritroviamo nei canti propri di questa Messa una evidente impronta mariana, in particolare nell’offertorio “Ave Maria” e nel communio “Ecce virgo concipiet”. Gli stessi testi di introito, offertorio e communio erano previsti anche per la festa dell’Annunciazione. Non stupisce perciò che in molte miniature dell’introito Rorate sia rappresentata proprio l’Annunciazione. Ciò che colpisce è come si presenta la scena: nella parte alta i cieli sono aperti e da essi si affaccia il Signore (talvolta rappresentato come Cristo-Alfa e Omega), che manda sulla Vergine una pioggia di raggi dorati con la colomba dello Spirito Santo[4]. Questa “pioggia” o rugiada (in latino ros, da cui viene il verbo rorate) ricorre spesso in questo tempo di Avvento-Natale con vari riferimenti biblici[5] che ci rivelano l’unità del mistero celebrato: la discesa del Verbo di Dio nella carne e la Sua discesa nel Pane eucaristico a cui assisteremo e che riceveremo durante la S. Messa, ma anche la venuta di Cristo in noi se l’ascolto della Sua Parola diventa disponibilità a fare la volontà di Dio, come dice il beato Guerrico d’Igny commentando proprio le parole di questo introito:

“Si faccia in me secondo la Tua parola. Dire questo, offrire in tal modo la propria devozione, questo è certamente aprire il petto al Signore, questo è anche aprire la bocca e attrarre lo Spirito. Così certamente si apriva la terra per ricevere la rugiada, che i cieli facevano scendere dall’alto, e per germogliare il Salvatore. […] O anima fedele, allarga il petto, dilata il l’affetto, non rinchiuderti nell’angusto spazio delle tue viscere, concepisci Colui che la creatura non contiene! Apri l’orecchio all’ascolto della Parola di Dio! Questa è la via dello Spirito per concepire dentro all’utero del cuore, in questo modo si compongono le ossa di Cristo, cioè le virtù, in noi.[6]

[1] Ben diversa era la resa dell’imperativo “Gaudete” (alla III domenica d’Avvento) su cui non si voleva mettere l’accento principale della frase, perché la vera meta era sul’avverbio “semper”: “Gaudete in Domino semper”, rallegratevi nel Signore sempre.

[2] Per conoscere l’antico e l’attuale uso delle “Quattro tempora” liturgiche rimandiamo all’articolo dedicato.

[3] Quello delle “stationes”, che significa “soste”, è un antico rito che aveva – ed ha tuttora – il significato di radunarsi e fare, appunto, una sosta prima di riprendere il cammino quotidiano in atteggiamento di lode e di preghiera. Secondo la tradizione, il Papa (o un suo rappresentante) e i fedeli di Roma giungono in processione da diversi punti della città cantando le litanie dei santi e si radunano in una delle basiliche del centro storico (che per questo sono anche dette ‘chiese stazionali’), dove sono custodite le reliquie dei martiri; qui viene celebrata la Messa. Sono più note le stazioni quaresimali, ma anche l’Avvento, come ogni pellegrinaggio, ha le sue “soste”.

[4] In alcune rappresentazioni i raggi escono dalla bocca stessa del Signore, come a dire che è proprio la Parola, il Verbo di Dio, che scende nel grembo della Vergine.

[5] Ad es. l’antifona “Quando natus es” con il riferimento al vello di Gedeone (Gdc 6,36-38), i sl 71,6 e 77,23-25.

[6] Guerrico d’Igny, Sermone secondo per l’Annunciazione.